7. Queste parole prese alla
lettera sarebbero la negazione di ogni previdenza, di ogni lavoro e, di
conseguenza, di ogni progresso. Con tale principio, l'uomo si ridurrebbe
a un'attesa passiva, e le sue forze fisiche e intellettuali
rimarrebbero inattive. Se questa fosse stata la sua condizione normale
sulla Terra, non sarebbe mai uscito dallo stato primitivo, e se oggi ne
facesse la sua legge, non gli rimarrebbe altro che vivere senza fare
niente. È evidente che tale non può essere stato il pensiero di Gesù,
perché sarebbe in contraddizione con quanto ha detto in altre occasioni e
con le leggi stesse della natura. Dio ha creato l'uomo senza vestiti e
senza riparo, ma gli ha dato l'intelligenza per poterseli procurare
(vedere cap. XIV, n. 6; cap. XXV, n. 2 di quest'opera).
Si
deve dunque vedere in queste parole una poetica allegoria della
Provvidenza, che non abbandona mai quanti ripongono in lei la loro
fiducia, però vuole che gli uomini facciano la loro parte. Quand'essa
non venga in aiuto con un soccorso materiale, ispira le idee con le
quali si trova il modo di trarsi d'impaccio (vedere cap. XXVII, n. 8 di
quest'opera).
Dio conosce i nostri bisogni e predispone
secondo necessità. Ma l'uomo, incostante nei suoi desideri, non sempre
sa accontentarsi di quello che ha. Il necessario non gli basta, gli ci
vuole il superfluo. È allora che la Provvidenza lo abbandona a se
stesso. Sovente è infelice proprio a causa di se stesso e per non aver
dato retta alla voce che lo avvertiva attraverso la sua coscienza. Dio
lascia che ne subisca le conseguenze, affinché ciò gli serva di lezione
per il futuro (vedere cap. V, n. 4 di quest'opera).