9. L'autorità,
come la ricchezza, è una delega di cui, chi ne è investito, dovrà
render conto. Non crediate che gli sia stata data per procurargli il
vano piacere di comandare né, tanto meno, come erroneamente crede la
maggior parte dei potenti della Terra, che essa sia un diritto, una
proprietà. D'altronde, Dio prova loro costantemente che non è né l'una
né l'altra cosa, perché gliela toglie a Lui piacendo. Se fosse un
privilegio legato alla persona, sarebbe inalienabile. Nessuno può dunque
dire che una cosa gli appartiene, dal momento che gli può essere tolta
senza il suo consenso. Dio concede l'autorità a titolo di missione o di
prova quando lo ritiene opportuno, e allo stesso modo gliela toglie.
Chiunque sia depositario di una autorità, di qualsiasi portata essa
sia, dal padrone sul suo dipendente fino al sovrano sul suo popolo, non
deve fingere di non sapere che è responsabile di anime, poiché
risponderà del buono o del cattivo orientamento che egli avrà dato ai
suoi subalterni. E gli errori che costoro potranno aver commesso,
i vizi dai quali si saranno lasciati trascinare a causa di questo
orientamento o dei cattivi esempi, ricadranno su di lui. Raccoglierà,
invece, i frutti del suo impegno se li avrà condotti al bene. Ogni uomo
ha sulla Terra una missione piccola o grande, e qualunque essa sia, è
sempre data a fin di bene. Falsarne, dunque, il vero significato vuol
dire farla fallire.
Se Dio domanda al ricco: «Che facesti
della fortuna che nelle tue mani avrebbe dovuto essere una sorgente che
spandeva fecondità intorno a sé?», domanderà anche a chi è investito di
una qualsiasi autorità: «Che uso hai fatto di questa autorità? Quali
mali hai fermato? Quale progresso hai portato a compimento? Se io ti ho
dato dei subordinati, non è stato per renderli schiavi della tua volontà
né docili strumenti dei tuoi capricci o della tua ambizione. Io ti ho
fatto forte e ti ho consegnato dei deboli perché tu li sostenessi e li
aiutassi a salire verso di me».
Il superiore che, investito
di autorità, segue le parole di Cristo, non disprezza nessuno dei suoi
sottoposti, perché sa che le differenze sociali non hanno importanza
davanti a Dio. Lo Spiritismo gli insegna che, se oggi alcuni sono ai
suoi ordini, essi hanno potuto comandarlo in passato o lo potranno in
futuro, e sarà allora trattato come lui stesso ha trattato loro.
Se il superiore ha dei doveri da rispettare, l'inferiore dal canto
suo non ne ha di meno sacri. Se quest'ultimo è Spiritista, la sua
coscienza gli dirà ancor meglio che non è dispensato dai suoi doveri,
anche qualora il suo superiore non dovesse rispettare i propri, perché
sa che non si deve rendere male per male, e che gli errori degli uni non
autorizzano gli errori degli altri. Se egli subisce una certa
condizione, senza dubbio sa che se la merita, perché lui stesso potrebbe
aver abusato un tempo della sua autorità e sa che deve a sua volta
soffrire i disagi che ha fatto soffrire agli altri. Se è obbligato a
subire una certa situazione, anziché trovarne una migliore, lo
Spiritismo gli insegna a rassegnarsi, quale prova d'umiltà necessaria al
suo avanzamento. È guidato nella sua condotta dal suo credo e si
comporta come vorrebbe che i suoi dipendenti si comportassero se fosse
lui il capo. Proprio per questo è più zelante nell'adempiere i suoi
obblighi, perché comprende che qualsiasi negligenza sul lavoro
affidatogli è un danno per colui che lo rimunera e al quale deve il suo
tempo e il suo impegno. In una parola, egli è sollecitato dal sentimento
del dovere, che gli viene dalla sua fede e dalla certezza che ogni
deviazione dal retto cammino è un debito che dovrà pagare più tardi.
(François, Nicolas, Madeleine e cardinale Morlot, Parigi, 1863)