16. Si invoca ancora, a sostegno del dogma dell'eternità delle pene il seguente argomento:
"Poiché la ricompensa accordata ai buoni è eterna, essa deve avere
come contropartita una punizione eterna. Proporzionare la punizione alla
ricompensa è cosa giusta."
Confutazione — Dio
creò l'anima con l'intenzione di renderla felice o infelice?
Evidentemente, la felicità della creatura deve essere lo scopo della Sua
Creazione, altrimenti Dio non sarebbe buono. La creatura raggiunge la
felicità attraverso il suo stesso merito; acquisito il merito, essa non
può perderne il frutto, altrimenti degenererebbe. L'eternità della
felicità è dunque la conseguenza della sua immortalità.
Ma,
prima di arrivare alla perfezione, essa deve sostenere delle lotte, deve
dar battaglia alle cattive passioni. Non avendola Dio creata perfetta,
ma suscettibile di divenirlo, affinché essa
abbia il merito delle sue azioni, l'anima può fallire. Le sue cadute
sono le conseguenze della sua naturale fragilità. Se, per una caduta,
essa dovesse essere punita eternamente, ci si potrebbe chiedere perché
Dio non l'ha creata più forte. La punizione che subisce è l'avvertimento
che essa ha commesso del male, e deve avere come risultato, quello di
ricondurla sulla retta via. Se la pena fosse irremissibile, il suo
desiderio di fare meglio sarebbe superfluo; perciò il fine
provvidenziale della creazione non potrebbe essere raggiunto, poiché vi
sarebbero esseri predestinati alla felicità e altri all'infelicità. Se
un'anima colpevole si pente, potrebbe divenire buona; potendo divenire
buona, essa può aspirare alla felicità. Dio, rifiutandogliene i mezzi
sarebbe giusto?
Essendo il bene lo scopo finale della
Creazione, la felicità — che ne è il premio — deve essere eterna; il
castigo — che è un mezzo per arrivarvi — deve essere temporaneo. La più
comune nozione di giustizia, anche tra gli uomini, dice che non si può
punire perpetuamente colui che ha il desiderio e la volontà di agire
bene.